Contributo di Mario Carabetta
L’attuale politica economica in Italia, condizionata dall’enorme debito pubblico, è caratterizzata da una elevata pressione fiscale che influenza negativamente, con l’imposizione di tasse sempre più gravose, la produzione di beni, risparmio, investimenti, consumi e favorisce la disoccupazione.
Come si è formato il mostruoso debito italiano?
Il debito pubblico, si alimenta con le obbligazioni emesse dal Tesoro, perché se le spese dello Stato sono maggiori delle sue entrate ( il deficit pubblico ), la differenza, se non è finanziata con l’emissione di moneta, è coperta con l’emissione di obbligazioni.
Fino a quando l’Italia ha speso più di quanto incassasse?
Il saldo primario, spesa pubblica meno le entrate prima del pagamento degli interessi, con l’ultimo governo Andreotti, circa 1990 , del bilancio dello Stato va in un sostanziale pareggio cioè non genera nuovo deficit prima di pagare gli interessi sul cumulato dei deficit prodotti nel corso della storia.
Da allora il saldo primario è stato o in avanzo, o in leggero disavanzo.
Il deficit è figlio del pagamento degli interessi sul debito cumulato. I deficit di natura finanziari hanno prodotto altro debito. La crescita economica (la variazione del PIL), inoltre, non è mai stata troppo robusta, perciò il rapporto debito su Pil, nel migliore dei casi, o è rimasto stabile, o è cresciuto di poco. Ultimamente il rapporto è cresciuto molto, perché il PIL (il denominatore) è caduto molto nel biennio 2008/2009 e non si è ancora ripreso.
1990-2010: vent’anni, tanto debito e poca crescita
Che rapporto c’è tra il debito pubblico dell’Italia e la crescita del Prodotto interno lordo? La variazione dell’indebitamento dipende certamente da quello che i governi fanno, ma anche da quello che fa per conto suo l’economia.
Nuovo record storico per il debito pubblico italiano ad aprile 2015. Secondo la Banca d’Italia il debito è aumentato in aprile di 10 miliardi, a 2.194,5 miliardi di euro.
Purtroppo l’elevato debito pubblico, l’alta pressione fiscale e la mancanza di lungimiranti politiche di sviluppo economico ed industriale stanno portando il nostro Paese ad una aspirale negativa senza fine.
Secondo il Centro Studi Impresa Lavoro ha compiuto un’interessante elaborazione sui dati Doing Business 2015, giungendo all’impietosa affermazione che la pressione fiscale per le aziende italiane ha toccato, nel 2014, quota 65,4%, per un tax rate che è secondo solamente al 66,6% in Francia. Un vero incubo fiscale rispetto alla vicina Croazia, dove il tax rate indicato nella ricerca Centro Studi Impresa Lavoro è pari al 18,8%.
Ad ogni modo, andiamo con ordine.
Il tax rate calcolato come sopra è la percentuale sugli utili totali, e comprende l’imposta sul reddito (corporate tax), i contributi sociali e previdenziali, le tasse sui dividendi e sul capital gain, le tasse sui rifiuti, sui veicoli, sui trasporti.
Ne deriva che su 100 euro di utili totali, le aziende italiane impiegano in tasse, imposte e contributi oltre 65 euro, ritagliandosi un ruolo ampiamente negativo nel vecchio Continente (contro – giusto per citare i termini di paragone principali – il 48,8% della Germania, o il 33,7% del Regno Unito).
Non solo: l’Italia si ritaglia una posizione particolarmente negativa anche per quanto attiene il numero di pagamenti fiscali per anno.
Doing Business dichiara in merito che le operazioni di versamento fiscale ammontano mediamente a 15, ponendosi in sesta posizione (la metà di quanto avviene nell’isola di Cipro, dove i pagamenti annui sono 29, ma più del doppio del best performer, la Svezia, con 6 pagamenti).
Le brutte notizie non finiscono qui.
Ai costi diretti legati al prelievo fiscale occorre infatti sommare anche i costi indiretti, cioè le ore-uomo necessarie per poter adempiere agli obblighi tributari.
Si scopre in tal modo che per poter essere in regola con l’erario, le aziende italiane impiegano in media 269 ore all’anno. Non certo una prestazione soddisfacente, ma pur sempre meglio di quanto avviene in Portogallo (275 ore), Ungheria (277), Polonia (286), Repubblica Ceca (413) e, soprattutto, Bulgaria, dove occorrono 454 ore per poter essere in regola con il fisco.
Di contro, un’azienda tedesca necessita di “sole” 218 ore per poter regolarizzare coerentemente la propria posizione con l’erario (51 in meno dell’Italia). E va ancora meglio in Spagna (dove sono sufficienti 167 ore) e in Francia (137 ore).
Stando a quanto afferma Impresa Lavoro a nota del proprio studio, dal contesto – come sopra delineato – emerge come l’Italia “resta la matrigna d’Europa per quanto riguarda le tasse sulle imprese”, e come le frequenti modifiche normative e la conseguente incertezza abbia creato un ulteriore scoraggiamento della nascita di nuove iniziative.
Anche l’Ocse afferma che cresce il peso del Fisco in Italia: al sesto posto per tasse e contributi
Il raporto Taxing Wages (cuneo fiscale) dice che per un lavoratore single la differenza tra il costo totale del lavoro e il salario netto in busta paga è ormai alle soglie del 50%. Nel 2014, la differenza tra il costo totale del lavoro e il salario netto in busta paga per un ‘single’ con una retribuzione media ha infatti raggiunto il 48,2%, in incremento di 0,4 punti rispetto al 2013. Il dato supera di oltre 12 punti la media Ocse che è del 36% (+0,1 punti sull’anno precedente) e l’aumento deriva dalle imposte sul reddito, mentre non emergono variazioni nell’incidenza dei contributi sociali.
La Penisola conferma così il sesto posto tra i 34 paesi Ocse per il prelievo complessivo sui salari. Al primo posto resta il Belgio, con il 55,6% (-0,08 punti), seguito da Austria (49,4%, +0,17), Germania (49,3%, -0,09), Ungheria (49%, invariato) e Francia (48,4%, -0,4). Alle spalle dell’Italia c’è, nettamente staccata, la Finlandia con il 43,9%. Gli Usa sono al 31,5% e la Svizzera al 22,2%. Il fisco più amichevole è quello cileno, che si accontenta di un prelievo del 7%.
Grazie Dr. Mario Carabetta per il chiarissimo articolo